Giovanni Ciaravolo

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I miei racconti


Questo racconto ha vinto il Premio Speciale Narrativa del 25° Premio Letterario Nazionale
"Santa Margherita Ligure - Franco Delpino" anno 2002. È stato inserito nella raccolta antologica
"Un mare da vivere, una terra da amare" 7ª edizione, edizioni ANPAI.



Il faro


Quella notte era tempesta. In mare fa paura, anche a quelli duri. Quando succede è sempre una cosa lunga, un grande affannarsi in preparativi che a volte lasciano il tempo di far le vele al ridosso più vicino, altrimenti tocca mettersi alla cappa, prua al mare e denti stretti, che c'è chi la racconta.
La senti arrivare col naso, il primo avviso nell'aria. Non è un odore, è cominciare a respirarla, densa e inebriante. Così ti ritrovi a guardare per aria aspettando gli altri segni che non tardano mai ad arrivare. Sull'orizzonte già le prime nuvole dense, un muro scuro che avanzando s'alza a mangiarsi il cielo. I colori smorzano, spenti dall'ultima luce che raffredda virando al grigio. Poi la brezza cessa e la bandiera floscia sull'albero resta immobile, gli sguardi di tutti a indugiarvi spesso, aspettando che muova. Allora comincia. Il panno ha un fremito, pochi attimi e si tende del tutto, uno sventolare nervoso, la direzione presa dice da che parte arriva. Non fa aspettare molto, le prime onde, lunghe e lente fanno già rollare. Il vento presto le straccia, schiuma bianca sulle creste sempre più alte, sino a frantumarle in un rotolare rovinoso contro lo scafo che le taglia con la prua, se sai tenercela, e a volte non basta.
Succede quando rompe il tempo. L'autunno entra impettito, stanco d'aspettare che gli si levi davanti la buona stagione, impantanata in un'immobile bonaccia. Dà una spallata e butta giù la porta. È sempre una cosa forte, senza mezze misure.
Quella notte era tempesta. In terra fa meraviglia, anche a quelli vuoti. La jeep frenò di colpo, quasi un'inchiodata. L'Aurelia in quel tratto lascia il Tigullio, restando in pericoloso equilibrio sull'interminabile scogliera che porta a Genova, Signora solennemente stesa sul suo golfo, una lunga scia di palazzi che si perde oltre lo sguardo, confusa tra il mare e l'ombra delle colline che s'affacciano lungo la costa.
Il vento teso era denso di salsedine, un'aria appiccicosa che cavalcava nubi scosse lanciate in una corsa sfrenata, enormi destrieri d'una possanza inconsistente che presto sfiancati si lasciavano travolgere, sciogliendosi com'erano apparsi, fugaci visioni. Il mare si gonfiava d'una forza enorme, l'orgoglio ferito da una terribile offesa, la furia cieca dell'ira. Urlava il mare, con un rombo cupo, assordante, il frastuono d'un treno infinito che non smetteva mai di passare.
Dai finestrini abbassati del fuoristrada entravano l'aria e i suoni della burrasca, richiami forti per quegli occhi stupiti rivolti in basso, verso quello spettacolo illuminato a tratti dalla luce irreale della luna che filtrava tra gli squarci delle nuvole al galoppo.
Quella notte o mai più. L'avvertiva chiaramente, non ci sarebbe stata replica, occasione unica. Tentò un sorriso, poi indicando il mare lo disse:
- Si va? -
S'era fatto tardi. Dovevano ancora passare in piazza, e il tipo là non aspettava. Dopo mezzanotte spariva, tempo scaduto, che aveva da vendere i suoi grammi di felicità da un'altra parte. Mancava poco, dovevano andare, subito.
- Allora? - insistette.
Glielo avevano promesso, una sera, una sola, come ai vecchi tempi. Volevano provargli che potevano ancora farlo, di stare senza. Glielo aveva lasciato credere. Quando avevano cominciato con le canne era rimasto con loro senza giudicare, senza emettere sentenze, solo per ricordargli che c'era un altro modo, un'altra rotta, senza le scorciatoie del facile, tracciate sempre troppo vicine agli scogli.
Incessanti le creste bianche rigavano la pagina scura del mare stesa oltre l'orizzonte, un vergare impetuoso, delirio indecifrabile.
Trattenne il fiato aspettando una risposta che arrivò muta ma chiarissima. Il lampeggiare della freccia anticipò di poco la sterzata decisa, giù per la strada che scende a Camogli, case incastonate sugli scogli, cristalli di pietra preziosa.
S'inventarono un buco per posteggiare, poi di corsa sul lungomare dove il frastuono diventava assordante. Le onde si schiantavano sulla spiaggia versandovi un boato che non cessava neppure mentre ritraevano, solo mutava nel fragore della ghiaia risucchiata tra la schiuma, sino al prossimo frangere. Quel distendersi e ritrarsi è il respiro del mare, l'onda come alito, vita che scorre. Quand'è tempesta quel fiato si fa rapido e affannoso, quasi un rantolo, come se al mare mancasse l'aria e andasse a prendersela, più in alto che può, fino in cielo.
La spiaggia veniva sommersa dall'acqua, a ridosso del muraglione che reggeva le prime case. Solo un breve tratto, ripido come il resto del paese, era raggiunto a stento dalle onde che lo lambivano appena. Su quei ciottoli ci si poteva avvicinare al mare, tanto da poterlo sfiorare, come in una sfida, lanciata senza bisogno di dirselo. Bastava correre a un niente dalla schiuma che saliva e andarle incontro appena si ritraeva, per poi scappare all'onda successiva, tutto in uno scoppiare di risa, "t'ha preso, no, no! Per un pelo, guardate questa, via, via!".
Sul lungomare tornarono quasi asciutti, il fiato corto che spezzava le voci eccitate. Era la notte giusta per ritrovarsi, stretti stretti contro qualcosa di grande, che nemmeno il mare faceva paura. Ma quel gioco non poteva bastare. Con ciò che offriva quella notte sembrava poca cosa, un giro sul cavalluccio della giostra, quando poco più in là c'erano le montagne russe.
Bastava lasciar scivolare lo sguardo lungo la spiaggia, fin dove s'ergeva solenne la rocca, il vecchio castello avvinghiato alla chiesa su d'uno scoglio proteso verso Ponente, a proteggere il porticciolo. In quel punto la forza del mare trovava un ostacolo improvviso, una resistenza imponente, amplificata da secoli di sfide reciproche, il mare ad attaccare rabbioso e la rocca a resistere orgogliosa. Altissime colonne d'acqua s'alzavano oltre le mura della fortezza, quasi a toccare la croce del campanile, che Cristo lassù chissà che fifa.
Tra quegli scogli spuntava un piccolo molo in pietra e cemento che terminava con una rotonda, usata in tempi di bonaccia per l'approdo leggero. Il mare vi s'impennava impazzito tutt'intorno per poi ricadere su se stesso, lasciandone il centro incredibilmente asciutto. Le onde frangevano tre o quattro alla volta, poi il mare riprendeva fiato, brevi pause regolari, come sanno bene i marinai che imparano a contare il ritmo della tempesta, che di giorno aiuta, ma di notte, quando non le vedi arrivare, ti salva la pelle. A loro servì per partire insieme di corsa fino dove l'acqua non bagnava, appena prima che l'ennesima serie d'onde si schiantasse tutt'intorno, montando in pareti compatte, tanto vicine da poterle sfiorare tendendo le mani, immersi nella meravigliosa sensazione d'essere nel mare, proprio dentro, troppo per averne il permesso. Poi quel muro bianco collassava, aprendo un varco lungo giusto il tempo di scappare al riparo dei portici, proprio a ridosso della spiaggia. Un attimo e la rabbia del mare tornava a rovinare sul moletto, colpo andato a vuoto, quegli insolenti mancati per un soffio.
Esultarono irriverenti, al sicuro dietro le basse arcate che riparano il passaggio al porto, padroni delle proprie vite, della loro vita insieme. Altro che fumo e pastiglie ingoiate di nascosto, fra litri di birra vomitati in un angolo prima di tornare a casa. E poi non costava niente, quella notte bastava camminare, e succedeva.
Ancora qualche passo attraverso carruggi stretti e portici bassi pieni di reti stese ad asciugare che già si ritrovarono sulla banchina. Il fragore della tempesta smorzava in quel rifugio fatto dalla paura dell'uomo di perdere le sue fragili cose. Il porto si limitava a un poco di mare abbracciato dal paese quasi a farne tana, con le case d'intorno a cullare le piccole barche di quella gente di mare, una finestra per ogni ormeggio.
Una coppia stava appartata sugli scalini di un portoncino, indaffarata in faccende d'amore. Non li avrebbero nemmeno visti se il ragazzo non fosse scattato in piedi, lasciando perdere le labbra schiuse della sua compagna.
- Ehi gente! -
Non aspettò risposta, gli si parò davanti sicuro di trovare quel che cercava:
- Che c'avete un paio di cartine? -
Farfugliò qualche scusa sul fatto che pioveva e c'era mare, che gli s'erano bagnate e comunque voleva offrire un paio di tiri, che ne aveva per tutti.
Peccato, era la serata giusta e quell'imbecille rovinava tutto, proprio quando sembrava possibile. La rassegnazione gli durò il tempo che ci misero a stupirlo. Si frugarono in tasca e saltò fuori stropicciato ma asciutto un mazzetto di cartine che volò verso il ragazzo, pronto a prenderlo al volo, la faccia idiota a guardarli andare via:
- Dai! - provò a insistere - Almeno un giro. -
Ma quelli erano già nel portico che dava sul molo. Toccò a lui rispondere mentre gli correva dietro:
- No grazie, questa sera proprio no. -
Il lungo braccio del porto subiva le bordate dei colpi di mare come se fosse sul punto di cedere, spezzato dalla furia del mare, e ogni volta riemergeva, incredibilmente intatto. Sull'estremità del molo, bianco, lampeggiava un faro. Fu come quando ti dicono di no, che non puoi, e sai che non è giusto; diventa un'esigenza, il bisogno fisico di farlo. A quel faro dovevano arrivare, da quel faro il mare non aveva il diritto di dividerli.
Il passaggio era per metà protetto da un muraglione più alto, ma per il resto rimaneva esposto alla forza del mare. Non dovettero dirsi niente, solo contare ancora il ritmo delle onde, come avevano imparato, poi all'inizio della pausa successiva cominciare a correre, senza già più fiato, ma con una determinazione che credeva avessero perso.
Il faro sembrava lontanissimo, una distanza infinita che diminuiva con lentezza esasperante, mentre il rombo dell'altra serie d'onde si faceva sempre più forte. Le gambe buttate avanti a forza senza nemmeno più sentirle che bisognava far presto, mancava ancora poco, fino a toccarlo, finalmente raggiunto. Un grido solo, tutti insieme, misto di soddisfazione e rabbia, qualcosa d'irrisolto da buttare fuori che non ce lo volevano dentro. Il tempo d'un paio di colpi di luce, tanto vicini da sentirne il calore, che già bisognava tornare indietro.
Solo allora se ne resero conto, il fragore a un passo dal molo, il tempo della pausa esaurito, sufficiente ad arrivare ma già finito per riuscire a tornare indietro. Inutile chiedersi come avevano fatto, il perché di quell'errore. Senza un riparo sarebbero stati spazzati via dal mare, e correre ormai non serviva più. Il faro continuava ostinato a lampeggiare, a fare luce dove il buio sembrava irrimediabile. Il faro, l'unico appiglio. A braccia larghe vi s'avvinghiò, afferrando mani che si cercavano, formando una catena che lo cingeva, quasi l'abbracciassero, stretti stretti l'uno all'altro, gli occhi chiusi.
- Forte! - urlò - tenetevi forte! -
La prima sembrò che esplodesse il mare, il colpo dovunque, a strapparli via, le dita che scivolano, strette ancora più forte, che perdere la presa è la fine. Il tempo d'un respiro e già arrivava l'altra.
Una... due... tre... quattro. Rimasero incollati al faro come fossero una cosa sola, l'unica salvezza possibile. Poi il mare sembrò riprendere fiato dopo l'ennesimo sforzo, la pausa che aspettavano. Non c'era tempo di pensare a niente, solo correre, goffi e appesantiti dall'acqua verso il riparo del portico. Eppure ridevano, senza sapere perché correndo ridevano, che ce l'avevano fatta, ancora insieme, malgrado tutto.
Era quasi l'alba quando i fari di una jeep presero a fendere la foschia che insisteva sull'Aurelia. Il rumore del motore era coperto dall'urlo del vento, ma si sentiva cantare, voci a squarciagola, come di chi ha bevuto. Capita, quando vecchi amici si ritrovano dopo tanto tempo.

Giovanni Ciaravolo © Copyright 2001 Tutti i diritti riservati

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